L'opera
Quando gli fu conferita, nella sua Sassari, la laurea ad honorem in Lettere, Salvatore Mannuzzu scelse per il suo discorso un tema che pochi si aspettavano: parlò di Giobbe. Non di tecniche narrative, del modo di costruire i personaggi o di scrivere i dialoghi, ma di un personaggio della Bibbia, cioè di quella tradizione che rappresenta, accanto alle letterature greca e latina, il terzo pilastro, e di gran lunga il meno considerato (almeno nei programmi scolastici), della letteratura moderna. A tre anni di distanza, Salvatore Mannuzzu ha pubblicato quel discorso, intitolato "Giobbe, il dolore e il desiderio", insieme con l´intervento con cui concluse il convegno che per l´occasione gli fu dedicato dall´Ateneo turritano, a due vecchie poesie (che documentano la profondità degli influssi montaliani ed eliotiani sul nostro), ad altrettante interviste concesse a Costantino Cossu e Maria Paola Masala, e infine a una terza poesia, "Come non detto", nata negli anni Quaranta e completata di recente, tremenda gemma scarna e cantabile che sembra mettere la parola fine all´avventura di scrivere («... È passata la festa/ Si smonta ogni storia / Tutto ciò che resta / E una vuota memoria / Uno spento sentire / Non c´è nulla da dire») e ci auguriamo vivamente di vedere smentita quanto prima da nuovi versi, racconti, romanzi. Il libro, che lo scrittore considera "un testamento", si intitola semplicemente Giobbe. Al centro c´è dunque l´uomo che, colpito dalla mano di Dio, «ignora la colpa per cui lo si punisce»; l´innocente schiantato dal dolore, da una sofferenza che sembra non aver senso. Ricco, si ritrova povero; padre di molti figli, gli muoiono tutti; sano, viene colpito da una piaga che lo riduce a grattarsi senza requie con un coccio. Ora: si puo continuare ad amare Dio malgrado tante disgrazie? E quindi: «Esiste negli uomini l´amore gratuito, fuori dalle aspettative di una - contropartita?» Giobbe protesta contro Dio. E Dio gli risponde, spiegandogli che la giustizia divina non è quella degli uomini ed è imperscrutabile. Giobbe, allora, finalmente cede: accetta il Vivente pur senza comprenderne le vie. Accetta le sue sofferenze per amore: «Mi ripudio / e mi consolo/sulla, polvere e sulla cenere». È un campione del dolore, ma ancor più del desiderio: che è, propriamente, nostalgia di un altrove, di ciò che è stato prima della vita e che sarà dopo. Per questo Mannuzzu sceglie Giobbe: «Rimanere all´altezza irraggiungibile del desiderio - del desiderio inappagato, mai pacificato - (è) la vocazione più vera della vita, e insieme della letteratura». In questo senso, sulla scorta degli esempi di Arthur Rimbaud e Franz Kafka, la letteratura è destinata a essere sempre un amore non corrisposto. Nell´intervento conclusivo del convegno, qui riproposto col titolo ´Aliud pro alio´, Salvatore Mannuzzu apre le porte della sua officina di scrittore rivelando, per esempio, che la Sardegna in cui ambienta le sue storie «è solo una metafora», focalizzando i rapporti fra il suo vecchio mestiere di giudice e quello attuale, soffermandosi sulla centralità del personaggio-narratore, dalla cui confessione (che è, al tempo stesso, una bugia) nasce il romanzo. e infine spiegando come la scintilla dell´ispirazione scocchi o dall´elaborazíone di un lutto o da un rapporto con un altro o dal peccato (nel senso di quando, con Karl Barth, viene da dire «Che peccato»: «Quando una cosa si sciupa, si rompe, non si realizza») o dal sentimento del tempo (anche in senso meteorologico), con la consapevolezza che il medesimo (e pazienza per Proust) non si ritrova mai. Alla fine un´altra, folgorante, definizione della letteratura come necessità e autenticità: «Si scrive solo se si trova dentro di sé questa necessità, questa propria verità oscura e fragile: se ogni riga, ogni tratto che esce dalla nostra penna, ci appartiene». Marco Del Noce su L´Unione Sarda.
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